“Don Fabio, il profumo della Vittoria…”. Potrebbe essere questo un efficace spot per il profumo lanciato dal vincente allenatore friulano Fabio Capello, che con la società lussemburghese avente ad oggetto sociale la produzione di articoli da profumeria “Sport 3000” aveva registrato il marchio del profumo “Don Fabio”. L’eau de toilette del neo allenatore della Nazionale inglese di calcio in realtà non ha mai visto gli scaffali dei negozi e per la Procura di Torino l’operazione semmai è servita a nascondere al fisco italiano profitti per sponsorizzazioni per un ammontare di oltre 10 milioni di Euro, che invece hanno beneficiato del più mite sistema fiscale del Granducato.Il “sistema Capello “, secondo l’Editoriale L’Espresso, ruota intorno al 'Capello Family Trust', con sede a Guernsey, un'isola nel canale della Manica. Il trust controlla il 100% della predetta società lussemburghese 'Sport 3000', che ha gestito il rapporto lavorativo con le squadre di calcio e il merchandising legato all'allenatore. I proventi di quest'ultima azienda finiscono sempre secondo “l’Espresso” in parte in un fondo d'investimento irlandese, in parte in operazioni immobiliari.
L’inchiesta è in corso, ma la difesa secondo Pier Filippo capello, il figlio avvocato dell’allenatore, sarà imperniata sulla circostanza che “…il denaro e i beni dati in trust – nella fattispecie una banca – non possono essere controllati direttamente dall'affidatario: se quella banca, in sostanza, nell'investire un certo patrimonio, finisce in una "black list" o commette irregolarità, non sarebbe responsabile colui che ha affidato il denaro, dando solo indicazioni di massima sulla sua destinazione e non potendo controllare i movimenti successivi…”(la Repubblica del 16 gennaio 2007)
Prescinderemo qui dalle valutazioni di merito sulla vicenda in questione; dobbiamo tuttavia annotare che le recenti vicende che hanno visto coinvolti personaggi famosi in relazione ai loro obblighi fiscali (Valentino Rossi, Loris Capirossi, Mario Cipollini, Alberto Tomba, per non parlare del tanto discusso Trust americano del Maestro Pavarotti) stanno lentamente demonizzando tutte le strutture societarie internazionali ed in particolare l’istituto del trust che almeno negli usi istituzionali assolve a compiti molto spesso virtuosi(tutela di persone sole disabili, tutela di figli minori, di nati fuori dal matrimonio, nell’ambito dei rapporti patrimoniali fra coniugi, nelle coppie conviventi, nell’ambito egli accordi di separazione e di divorzio, tutela di assetti familiari all’interno degli organi societari, tutela dei creditori nelle procedure concorsuali, etc)
DISCIPLINA FISCALE – In realtà l'Amministrazione Finanziaria si è dotata di strumenti legislativi per arginare un uso distorto del Trust. Con la finanziaria 2007, infatto si è introdotta una disciplina interna del Trust in materia fiscale pur in assenza di una correlativa norma civilistica che delineasse l'istituto. L’introduzione del trust nella disciplina interna avviene in materia fiscale attraverso la modifica dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi (“TUIR”), con la quale viene incluso il trust tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società (IRES), riconoscendo quindi all’istituto una “cittadinanza”, seppur esclusivamente fiscale, all’interno del nostro ordinamento, assegnando quindi al medesimo un’autonoma soggettività tributaria. La tassazione avviene in capo ai beneficiari se questi sono individuati oppure in capo al trust manca l’indicazione degli stessi, avviene in capo ad entrambi quando parte del reddito prodotto è accantonata come capitale e parte invece viene attribuita ai beneficiari: nel primo caso ci sarà l’assoggettamento all’IRES, nel secondo caso i beneficiari assolveranno le imposte sul reddito (ma una recente risoluzione dell’Agenzia ha chiarito che non sempre l’individuazione del beneficiario fa scattare a in capo a quest’ultimo l’obbligo di assolvere le imposte, è il caso ad esempio del beneficiario disabile). Ma quando il reddito prodotto dal trust viene tassato in Italia ovvero quando il trust può considerarsi residente in Italia? Seguendo le indicazioni fornite da una recente Circolare dell’Agenzia delle Entrate, possiamo dire che, pur basandosi in linea di massima sui criteri previsti per le società, la determinazione della residenza deve tener conto di alcune caratteristiche peculiari dell’istituto: si farà quindi riferimento di norma alla sede dell’amministrazione o all’oggetto principale dell’attività, ma anche in questi casi dovrà operarsi un distinguo a seconda delle caratteristiche possedute dal singolo trust e alla sua tipologia. Se infatti è dotato di una struttura organizzativa in Italia, nulla questio, determinare la residenza ai fini fiscali sarà agevole, ma se sprovvisto di detta organizzazione la residenza potrà coincidere con il domicilio fiscale del trustee. Se si utilizza ai fini della determinazione della residenza l’oggetto principale dell’attività dovrà guardarsi alla tipologia del trust: facile individuare la residenza ad esempio se i beni immobili oggetto del patrimonio sono situati in Italia, più complesso invece se sono situati in diversi stati (si applicherà la regola della prevalenza), mentre in caso di attività commerciale o mista, dovrà aversi riguardo alla concreta attività svolta. L'art. 73 comma 3 del Tuir in ogni caso contiene le norme dirette a contrastare la fittizia localizzazione all'estero del Trust, con finalità elusive .